Giulio Carlo Argan,
L’architettura italiana del Duecento e
Trecento ,
"Universale di Architettura, diretta da Bruno Zevi, n. 15/16",
Dedalo
Libri, Bari 1978.
Al volumetto è aggiunta una nuova Premessa (datata:
Roma, 10 ottobre 1978). Nella stessa collana è riedito anche l'altro dei
due volumetti NEMI di Argan: L’architettura protocristiana, preromanica e romanica.
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Non posso
ricordare senza commuovermi i vecchi fascicoli di storia dell’arte delle
Edizioni Nemi e l’ottimo dottor Cherubini, che della serie era
l’inventore e l’attentissimo curatore.
Tra il Trenta e il Quaranta furono in Italia le prime pubblicazioni
d’arte divulgative ed economiche (un volumetto costava cinque lire)
impostate su una base scientifica e concepite secondo le più attuali
vedute critiche. Innegabilmente la serie di quei volumetti fece fare
agli italiani un bel passo avanti nella conoscenza del loro patrimonio
monumentale ed artistico, nonché nell’intelligenza dei valori visivi.
La giovane critica d’arte, a cui appunto il Cherubini ebbe la buona idea
di rivolgersi, era allora tutta idealista e crociana, benché già con una
spiccata tendenza verso la critica formalistica o della
«pura
visibilità» di cui Lionello Venturi a Torino e Matteo Marangoni in
Toscana erano i pionieri. Poiché, fin dagli anni dell’Università (a
Torino, col Venturi) mi ero occupato di architettura e poiché, alla
Scuola di Specializzazione di Roma, ero stato allievo di Pietro Toesca,
a me toccarono i due volumetti sull’architettura paleo-cristiana,
romanica e gotica in Italia. Il Medioevo del Toesca, appunto, è stato la
falsariga (né poteva essere altrimenti) nella mia analisi,
inevitabilmente sommaria, di
quei periodi storici.
Ho voluto ricordare i miei
maestri, non soltanto per una gratitudine tutt’altro che spenta, ma per spiegare anzitutto perché abbia
accettato di ripubblicare i due volumetti a più di quarant’anni di
distanza, poi perché abbia ricusato di cambiare anche soltanto una
virgola. Ho ricusato di cambiare non certo perché abbia la presunzione
di credere definitive le cose scritte allora, ma per la ragione
contraria: a rimetterci le mani per tentare di aggiornarli allo sviluppo
degli studi sul Medioevo e del mio stesso modo di fare critica, avrei
dovuto cambiare tutto. Ho tuttavia ceduto all’invito pressante di un
grande storico dell’architettura, di me tanto più giovane, Bruno Zevi,
perché credo davvero che, nella loro modestia anche editoriale, quei due
vecchi libretti abbiano contribuito a mutare le inveterate abitudini di
quella ch’era allora la critica ufficiale dell’architettura. Era ancora
ancorata agli scaduti temi della decadenza medievale e della riconquista
della classicità nel Rinascimento, alla storia degli
«stili»
e delle tecniche costruttive,
alla ricerca d’archivio, al mito deleterio del restauro ricostruttivo e
dell’isolamento del monumento. Era scorretto pensare che l’architettura
fosse l’espressione di concezioni dello spazio che mutavano coi tempi,
il fattore determinante degli ambienti urbani, la testimonianza visibile
delle successive strutture organizzative della società e del lavoro. I
volumetti Nemi, e non soltanto i miei, concorsero a diffondere un modo
nuovo dì vedere e capire l’architettura: per una volta l’impulso di
rinnovamento del lavoro scientifico mosse dal basso, da una divulgazione
non compilativa né sprezzante del vasto pubblico a cui si rivolgeva. E
fu non piccolo merito di chi inventò quella collana scopertamente ma non
didascalicamente popolare affidarsi a quella ch’era allora in Italia la
nouvelle vague della storiografia dell’arte.
Roma, 10 ottobre 1978
G.C.A.
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[Riproduzione delle due pagine
della Premessa]
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