a cura di Claudio Gamba
Il progetto di una
mostra sulla vita e sull’opera di Giulio Carlo Argan era stato approntato
all’inizio del 2001 in previsione delle iniziative che avrebbero ricordato
lo studioso a dieci anni dalla morte (novembre 2002); ma la ricorrenza era
poco più che un appiglio e il fatto che mostra e convegno si inaugurino
alcuni mesi dopo non costituisce problema: sin dall’inizio avevamo ben in
mente una frase di Argan pronunciata in Senato: «debbo dichiarare la mia
recisa avversione alle iniziative volte a celebrare i centenari delle
nascite o delle morti, che sono le sole cose che i grandi del passato non
hanno pensate e volute». In effetti il progetto è nato da esigenze di
studio e di ricerca ben lontane dalla vana celebrazione, basate piuttosto
sulla convinzione che per preservare la memoria storica bisogna prima di
tutto far emergere documenti e immagini che restituiscano la complessità
di una vita lunga e laboriosa come è stata quella di Argan. In concreto
l’idea della mostra è venuta delineandosi attraverso tre percorsi: dalle
ricerche condotte nell’archivio privato di famiglia; dal precedente della
mostra su Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo (2000); dal
diffondersi di sempre più approfondite ricerche sulla storia della critica
d’arte del secolo scorso.
L’archivio privato, sebbene formato da materiali che non coprono tutte le
attività e gli interessi di Argan (molte le lacune fino agli anni Sessanta
e talvolta anche dopo), rappresenta un patrimonio insostituibile per una
completa ricostruzione biografico-critica, specie per ciò che precede e
segue la stesura e la pubblicazione dei suoi scritti (appunti, lettere di
critici e artisti, carteggi con gli editori, dattiloscritti, estratti); su
questi materiali e sulle fotografie si è iniziato un primo lavoro di
riordino, tentando di migliorare le condizioni, talvolta caotiche, in cui
Argan aveva lasciato le sue carte, condizioni dovute in sostanza
all’avversione per gli archivi privati e all’indifferenza per la sorte del
suo (che anzi avrebbe preferito venisse distrutto); si è iniziato anche un
primo schematico elenco della corrispondenza conservata, in gran parte
quella ricevuta dacché solo in rari casi Argan teneva veline delle
risposte (con un calcolo approssimativo, si tratta di oltre mille
corrispondenti per un totale di quattro o cinquemila lettere); alla
completa perlustrazione di cosa è rimasto a casa Argan, dovrà però seguire
una più seria catalogazione con criteri archivistici e un progetto di
recupero in fotocopia delle lettere di Argan sparse negli archivi dei
corrispondenti e dell’altra documentazione conservata in archivi pubblici
e privati.
La mostra su Bianchi Bandinelli curata da M. Barbanera, ha costituito per
il nostro progetto, come abbiamo detto, un precedente significativo. L’uso
delle strutture con cui quella era stata allestita, non rappresenta un
fatto puramente accidentale, ma è motivato dalla continuità ideale delle
due mostre e dalla contiguità reale che lega l’opera dei due studiosi:
l’iniziale crocismo superato nell’interesse per i problemi della
produzione, l’attività nell’amministrazione delle Antichità e Belle Arti,
le due grandi enciclopedie avviate alla metà degli anni Cinquanta,
l’insegnamento nell’Università di Roma, le battaglie per la difesa del
patrimonio artistico e culturale, e non ultimo il percorso politico. Il
luogo stesso della mostra, il Museo dell’Arte Classica, ci sembra tutt’altro
che casuale: una gipsoteca certo, ma soprattutto un museo didattico
finalizzato anche alla ricerca e posto all’interno dell’università (in
affinità con l’idea propugnata da Argan, a partire dal dopoguerra, del
filo unico che dovrebbe legare insieme il museo, la scuola, la città).
Il terzo percorso che ha sollecitato il progetto della mostra è il
diffondersi di un più approfondito e rigoroso modo di studiare la storia
della critica d’arte, anche di quella recentissima; ma prima ancora la
centralità assunta da tali ricerche nel momento in cui la storia dell’arte
vive la crisi tipica delle discipline che, sedimentata la loro autonomia,
cristallizzano percorsi e strumenti; per questo si sente come necessario
l’approfondimento di ciò che è stata la critica d’arte nel corso del
Novecento, ricostruire le matrici della propria identità, i profili dei
grandi maestri che ne hanno segnato il corso. È una storia in gran parte
ancora da scrivere, ma per farlo bisogna prima di tutto salvarne i
documenti; insieme con il rischio di dispersione, privatizzazione,
deperimento delle “cose” che costituiscono l’oggetto di studio della
storia dell’arte esiste un disperdersi di memoria e di oggetti che
riguarda il modo e gli strumenti con cui quella storia si è fatta: carte
private, epistolari, archivi, biblioteche, documentazione editoriale. In
fondo questa ulteriore estensione del concetto di tutela nasce dalla crisi
generale delle discipline umanistiche o storiche, dall’affermarsi di nuovi
modi di fare ricerca con la strumentazione tecnologica e informatica, dal
non volersi adeguare alla riduzione della cultura a puro dato
economicistico. Si cerca nel passato la continuità di tradizioni critiche
e la ragione di un ancora sperato futuro. Non si dedicano con insistenza
alla propria storia interna, cioè alla storia della critica, le discipline
che vedono come concluso il proprio ciclo vitale e non possono far altro
che ricordare i bei tempi andati, ma quelle che, appunto, si ostinano a
non voler morire.
Riassumendo le ragioni, tra loro strettamente intrecciate, che hanno
spinto alla realizzazione della mostra, possiamo indicare tre necessità:
1) un’esigenza di studio: far conoscere la ricchezza di documenti presenti
a casa Argan perché si possa avviare una ricostruzione filologica della
vita e dell’opera dello studioso; 2) un’esigenza di tutela: per evitare la
dispersione degli archivi privati e quindi per sollecitare la conoscenza e
la catalogazione dei materiali che vi si conservano; 3) un’esigenza di
memoria: per non perdere coscienza delle cose, per fare in modo che, in
tempi di revisionismi e facili amnesie, le vite significative non si
dissolvano nell’oblio, non si trasfigurino nel falso. La mostra vuole
allora dare testimonianza concreta di ciò che è stato Argan attraverso un
percorso tra foto, documenti, scritti; vuole riproporne l’alto esempio di
intellettuale militante, senza fare mitologia o agiografia ma facendo
storia, che, quanto è tale, è insieme memoria e progetto.
La mostra è strutturata in ordine cronologico, seguendo otto spartizioni
temporali. Nel suo saggio d’apertura Calvesi indica tre grandi periodi,
più o meno equivalenti, nella vita di Argan: 1933-55 nell’amministrazione
delle Belle Arti, 1955-75 nell’università, 1976-92 come sindaco e
senatore. Questi periodi sono stati a loro volta, ciascuno, divisi in due
all’altezza di date significative: la fine della guerra, l’inizio di una
più diretta militanza nel 1963, le dimissioni da sindaco nel 1979. A
questi sei periodi se ne aggiungono altri due: la formazione 1909-27;
l’Università e il Perfezionamento 1927-33. All’interno dei singoli periodi
si sono raggruppati percorsi tematici in modo che risulti il più possibile
evidente la vastità di interessi e di campi in cui si è mosso Argan.
Inevitabilmente ci sono delle lacune, incontri e problemi non trattati, e
per riparare abbiamo realizzato una densa cronologia, che potrà apparire,
a seconda dei punti di vista, eccessiva nella raccolta di dati e
informazioni o ancora incompleta per la mancata menzione di molte cose,
non note o sulle quali non si è fatto in tempo a reperire notizie precise.
Ci sembra che comunque questa cronologia ponga le basi per una ricerca che
non si fermi all’astratto e all’indistinto di tanta improvvisata
memorialistica. A compensare la massa di dati, che così esposta non pone
problemi di analisi critica e non dà risposte interpretative, abbiamo
aggiunto un’antologia di giudizi ricavata da recensioni, articoli,
testimonianze su Argan, facendo una piccola e parziale storia della
critica applicata alla critica stessa. Il desiderio e la speranza è che
tutto questo serva non per chiudere il discorso su Argan, ma per
contribuire a inserirlo in un nuovo ciclo di studi sulla storia della
critica d’arte nel Novecento, perché segua cioè alla ricerca monografica
una parallela ricerca per archi cronologici, per itinerari e problemi, per
contrasti e contesti.
Rimane, infine, il rammarico che in questi ultimi anni siano scomparsi
prematuramente tre allievi di Argan (Maurizio Fagiolo, Stefano Susinno,
Bruno Contardi) che rappresentavano, sia pure poi diversamente
indirizzati, tre momenti dell’insegnamento romano: la fase iniziale sul
barocco, quella a cavallo del ’68 sul neoclassico, e quella sulla storia
della città che di fatto si conclude nel 1976 confluendo nell’opera di
sindaco. Fagiolo e Contardi sono stati inoltre tra i più stretti
collaboratori di Argan, condividendo col maestro molti titoli importanti
(dalla Guida alla storia dell’arte al Michelangelo architetto) e curando,
rispettivamente, le dispense universitarie negli anni Sessanta, le
raccolte di scritti negli anni Ottanta. Avevo avuto modo di esporre a
Contardi, poche settimane prima della sua morte, l’idea iniziale del
progetto di questa mostra, che aveva raccolto, come sempre, i suoi
generosi entusiasmi. Ci sembra giusto che alla memoria dell’ultimo e
prediletto allievo di Argan vengano dedicate le pagine di questo libro.