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Due articoli di Argan

Gli articoli di Argan che qui ripubblichiamo, non più editi dopo la loro prima apparizione, esemplificano due momenti e due contesti dell’attività dello studioso: il primo articolo, Lo sviluppo culturale, fu scritto per la «Esso rivista» (a. 17, n.5, settembre-ottobre 1965, pp. 3-5, numero speciale «L’Italia tra 25 anni»), alla quale Argan collaborava sin dal 1952, quando fu membro della giuria del secondo Premio di pittura Esso, e testimonia di quei rapporti con una parte, illuminata, del mondo industriale che Argan ha avuto nel dopoguerra (così anche per le riviste «Comunità» di Olivetti e «Civiltà delle Macchine» di Sinisgalli); l’articolo del 1965 segna però il crinale di un rapporto ormai destinato a rompersi, nella disillusione che l’estetico possa integrarsi con il sistema produttivo senza essere condizionato dalle leggi economiche del mercato; è quindi un articolo particolarmente rappresentativo di quel momento di crisi che egli aveva visto manifestarsi in modo definitivo nell’arte l’anno precedente (cfr. l’articolo sulla Pop art alla Biennale e il lungo saggio Progetto e destino) e che lo porterà due anni dopo a teorizzare la morte dell’arte (molti punti, in difesa del criticismo storicistico contro il dogmatismo scientifico, verranno infine ripresi nel saggio La storia dell’arte del 1969). L’altro articolo invece, Beni culturali, ma di chi?, fu scritto su richiesta del Mensile del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti: «Insegnare» (a. II, n. 7-8, luglio-agosto 1986, pp. 7-9) e testimonia la fase ultima, quella degli interventi in Senato, successiva anche alla discussione sulla crisi dell’arte e alla difesa della storia: una rinnovata militanza che, dopo l’esperienza di sindaco, si concentra tutta in difesa di quel patrimonio culturale che egli vedeva sempre più minacciato dagli interessi dei privati e dalla demolizione dello Stato, cioè, secondo lui, della coscienza civile dei cittadini. Ci sembra che la sostanza del discorso di Argan in entrambi gli articoli, non abbia perso d’attualità e che anche quando non se ne possano più condividere singoli punti rimanga intatto l’esempio dello storico e critico che mette la propria esperienza e ragione a servizio della collettività, che opera anche al di là degli stretti confini dello specialismo disciplinare, che sceglie, come ebbe a dire presentando un suo libro, di «non assistere agnostico e inerte» a quanto accade nella cultura del proprio tempo.

Per andare all'altro articolo: Beni culturali, ma di chi? (1986)

 

Lo sviluppo culturale (1965)

 

Riteniamo che le correnti e le forme che, oggi, dimostrano di avere una maggior possibilità di sviluppo, domineranno in un futuro abbastanza prossimo la cultura italiana. Quando si cerca però dì individuare queste correnti e queste forme, la questione si complica. Bisogna considerare l’intero quadro, non soltanto italiano, della situazione culturale, poiché è in esso che le correnti culturali italiane capaci di sviluppo potranno, di fatto, svilupparsi. E bisogna, prima ancora, vedere se la situazione culturale italiana, così com’è, sia una situazione in progresso. Da un’analisi obbiettiva risulta che oggi l’Italia non è in posizione d’avanguardia o di punta in nessun campo; politico-sociale, economico-produttivo, scientifico, tecnologico, letterario, artistico. È in fase di allineamento o di aggiornamento, ma nessuno può dire se la distanza che ora la separa dalle linee più avanzate della cultura mondiale, tra dieci o venti o trent’anni sarà scomparsa o diminuita o aumentata. Considerando che la spinta progressiva da cui la nostra cultura fu animata subito dopo la guerra è andata via via affievolendosi, è ragionevole supporre, e temere, che la distanza andrà aumentando.

Questa situazione ha, in gran parte, cause obbiettive. Lo sviluppo culturale è oggi, almeno in parte, il prodotto dell’organizzazione e della strumentazione della ricerca scientifica. L’organizzazione e la strumentazione della ricerca scientifica, in Italia, sono molto indietro; in alcuni settori, addirittura inesistenti. L’Università italiana è un organismo difettoso, vecchio e, per quanto riguarda la ricerca pura, scarsamente attrezzato e privo di agilità di movimento. I piani di riforma recentemente elaborati non partono da una valutazione esatta della situazione e non prospettano rinnovamenti strutturali profondi, non prevedono il necessario impegno di mezzi. Lo stesso può dirsi di altri apparati culturali essenziali, come le biblioteche e i musei. La classe politica, senza distinzione di partiti, non sembra interessata al problema se non nella misura in cui esso rientra nei programmi di governo che si vogliono sostenere o combattere; si ha la netta impressione che l’organizzazione della cultura venga considerata soltanto come una possibilità di politicizzarla, in un senso o nello altro.

Inoltre, è un grave errore attendere tutto dallo Stato e dai mezzi che esso potrebbe investire nell’organizzazione culturale. Non in tutti i Paesi dove un’organizzazione esiste e funziona essa e stata creata ed è fatta funzionare dallo Stato. È stata creata ed è alimentata dallo Stato nei Paesi comunisti, ma in tal caso rientra in un sistema che compendia e gestisce tutte le attività e tutte le forze economiche del Paese. Non è stata creata e non è alimentata se non in parte dallo Stato in Paesi, come gli Stati Uniti, dove l’iniziativa privata conserva una notevole libertà di movimento. Molte università, molte biblioteche, molti musei americani sono nati dall’iniziativa di gruppi di privati: costituiscono il modo con cui una ricchezza accumulata attraverso il lavoro della comunità viene messa a profitto della comunità, e senza l’ipocrisia della beneficenza o del mecenatismo. In Italia, la cultura non deve nulla, o pochissimo, alla grande industria e al grande capitale: salvo qualche raro caso (è doveroso ricordare il nome di Adriano Olivetti) la ricchezza è considerata un bene sottratto alla comunità e non una forza da impiegare per l’utilità collettiva. Quanto al pericolo che il concorso del grande capitale alla organizzazione culturale possa tradursi in una limitazione della libertà della scienza, diciamo subito che esso comincerebbe ad esistere soltanto quando un’organizzazione della cultura fosse stata creata; e a fronteggiarlo basterebbe la cultura stessa che, se non è libera, non è cultura. Le università americane sono abbastanza indipendenti dalle loro fonti di mezzi materiali; non meno, comunque, di quanto università, scuole, biblioteche, musei italiani siano indipendenti dall’autorità politica dello Stato.

Se l’Italia riuscirà a organizzare, attrezzare, alimentare adeguatamente le attività culturali, prenderà consistenza la questione, oggi puramente teorica, dell’orientamento e, quindi, delle correnti più capaci di sviluppo. Nel quadro della cultura mondiale la direttrice orientativa o l’accento assiologico è dato, obbiettivamente, dalla ricerca scientifica. È questa, infatti, che si presenta maggiormente organizzata, come ricerca coordinata o di gruppo, e come sistema di relazioni interdisciplinari. Il fine è, indubbiamente, un accrescimento dei poteri umani: il potere di oltrepassare i limiti del nostro pianeta; il potere di produrre quantità enormi di beni materiali utilizzando nuove sorgenti di energia; il potere di imporre una certa volontà politica mediante mezzi bellici dotati di una spaventosa forza distruttiva. Non si tratta, però, di un accrescimento puramente quantitativo, sia pure straordinariamente rapido. Sappiamo di essere alle soglie di un «muro del suono» che implica una trasformazione radicale degli stessi criteri o misure delle quantità, cioè un vero e proprio salto qualitativo, che porterà inevitabilmente alla scadenza dei vecchi e alla costituzione di nuovi modelli di valore. Non è privo di significato il fatto che, subito dopo avere messo in discussione il problema della «cultura di massa», si sia sentito il bisogno di rinunciare al termine «cultura» e di sostituirlo con quelli di «comunicazione» e «informazione». Basterebbe questa specie di censura al nome «cultura» a dimostrare che il primo valore dato per scaduto è il valore della storia o, più precisamente, della storicità come criterio ordinatore dell’agire umano e della sua valutazione in rapporto ad un fine: come prima ed essenziale delle «metodologie interdisciplinari». Ciò non significa necessariamente la riduzione della cultura al livello, ancora molto basso, dei «fumetti», dei «gialli», del cinematografo o degli spettacoli televisivi: significa che si farà la scienza senza fare insieme la storia della scienza, la filosofia senza la storia della filosofia, l’arte senza la storia dell’arte. Ad un altro livello, anche più pericoloso, si farà la politica senza la esperienza e la coscienza della storia: la più brutale e crudele delle politiche, la politica di potere o, come eufemisticamente si dice, di prestigio.

È discutibile se ciò avvenga, automaticamente, a causa del progresso tecnologico-industriale. È obbiettivamente vero che i Paesi in cui questo progresso è stato più rapido sono quelli in cui, per varie ragioni, il problema dei valori «storici» si poneva con minore gravità, ma questo più facile avviamento non implica di necessità che i Paesi di antica storia debbano scegliere tra la storia e il progresso tecnologico-industriale. Sentiamo porre drammaticamente questo dilemma ogniqualvolta si tratta di sfigurare una città antica col pretesto delle «esigenze della vita moderna»: ma a porlo non è la grande industria, bensì la speculazione immobiliare, cioè la più reazionaria e non la più progressiva tra le forze che agiscono — incontrollate — nel nostro Paese. Al contrario, i Paesi dove il progresso tecnologico-industriale è più avanzato, si tratti degli Stati Uniti o della Unione Sovietica, si dimostrano molto più solleciti della cultura, anche umanistica, che i Paesi dove la cultura umanistica è nata e cresciuta. Non voglio dire, di certo, che ai Paesi di storia antica spetti un compito simile a quello dei primi monasteri benedettini dove amorosamente si raccoglievano, conservavano e ricomponevano i frammenti della cultura classica che le orde barbariche andavano distruggendo. L’accento assiologico della cultura mondiale essendo scientifico-tecnologico, la cultura italiana non potrà svilupparsi che nella stessa direzione; ma sarà o dovrebbe essere sua funzione specifica agire nel campo tecnologico-scientifico con la coscienza o il sentimento della storia che è il fondamento di tutta la sua cultura. Il suo contributo originale può consistere proprio nel favorire la maturazione del progresso scientifico-tecnologico, che in tutto il mondo è soltanto agli inizi, in senso storicistico e non anti-storicistico. Il primo passo, dunque, consisterà o dovrebbe consistere nello sviluppare secondo una metodologia scientifica proprio le discipline umanistiche, dacché proprio queste, quanto ad organizzazione e strumentazione, sono molto più indietro di quanto non siano nei paesi che consideriamo puramente «tecnologici». Non illudiamoci: un grande museo italiano sarà magari pieno di capolavori, ma quanto a struttura organizzativa e a potenzionalità di sviluppo sta ad un grande museo americano come una vettura a cavalli sta a un’automobile.

Data questa situazione, ritengo dunque che la corrente di pensiero che si presenta più dotata di possibilità di sviluppo sia quella più preparata a superare l’antinomia fittizia delle «due culture» e a promuovere 1’evoluzione «scientifica» della cultura umanistica: cioè quella che muove dalla fenomenologia di Husserl e sviluppa criticamente, in tutti i campi del sapere, la ricerca strutturalistica. Larghi orizzonti si aprono infatti al di là del punto di convergenza, non irraggiungibile né molto lontano, di fenomenologia e marxismo, anche per quella cultura «di massa» che non è né dev'essere una cultura «di gregge».

Coerentemente a quanto ho già detto, credo che i valori estetici di cui si può prevedere l’affermazione in un vicino futuro, e sempre nel caso che si verifichino le circostanze propizie, sono quelli più direttamente collegati con il pensiero fenomenologico e più facilmente associabili con la ricerca scientifica e tecnologica. Mi riferisco alle ricerche di gruppo nel campo della fenomenologia della visione: ricerche che sono già assai avanzate tanto in Europa che in America. Impostate come ricerche coordinate, anche nel campo operativo (sia pure con molte incertezze sul piano metodologico), stanno ora sviluppandosi a livello delle relazioni interdisciplinari: sono infatti collegate con la ricerca scientifica pura (psicologia della forma), con la ricerca strutturalistica (semantica), con la ricerca tecnologica e produttiva (disegno industriale), con la progettazione urbanistica e architettonica. Anche in questo campo, però, manca in Italia qualsiasi organizzazione: la ricerca visuale è esclusa dalle scuole artistiche, non v'è neppure una scuola di disegno industriale, le stesse facoltà di architettura non sono impostate come scuole di progettazione rigorosa.

Parlando di «orizzonti spirituali» a cui è diretta la ricerca dell’uomo, non si può prescindere dal «sintomo» più evidente: l’ansia dell'esplorazione spaziale. È un’esperienza appena iniziata, i cui sviluppi lontani sono assolutamente imprevedibili. Ma è certo che sta concludendosi un ciclo storico, durato migliaia di anni, in cui lo scopo ultimo è stato la conoscenza e la praticabilità della Terra; e un altro ciclo sta aprendosi, in cui lo scopo ultimo sarà la conoscenza e la praticabilità dell’universo. Nessuno può dire che cosa si scoprirà: per ora l’impresa spaziale ha soltanto l’obbiettivo di diradare un mistero. Molto meno di quanto si proponeva, prendendo il mare con le sue caravelle, Cristoforo Colombo. Dunque non è l’obbiettivo che spiega l’entità delle energie e dei mezzi messi in gioco. È più probabile che si voglia soltanto accertare le possibilità dell’apparato tecnologico, scoprire se la tecnica umana abbia i limiti dello spazio terrestre o sia una tecnica universale. Fors’anche si vuole, alla soglia del secondo Millennio dopo Cristo, segnare la soglia di un nuovo ciclo dell’esistenza umana, rispetto al quale quella che chiamiamo la Storia si farà lontana e indistinta, diventerà preistoria. Dovrebbe concretarsi così la liquidazione finale della storia da parte della tecnologia: dopo l’era storica si avrebbe l’era tecnologica. Con le imprese spaziali la tecnologia instaura la propria metafisica.

Non si può negare il carattere spirituale di questo «orizzonte», né dell’aspirazione di una larga parte dell’umanità a un regime di giustizia e di assoluta uguaglianza sociale, né delle correnti religiose; che si diffondono sempre di più proprio in quell’ambiente tecnologico che sembrerebbe doverle escludere. Non la mancanza di «orizzonti spirituali» ci preoccupa, ma il modo con cui generalmente vengono accettati, per un indiscriminato e indiscriminante desiderio di «evasione». Lo stesso concetto di «alienazione» è diventato una specie di alibi collettivo.

Debbo dunque dichiarare la mia profonda diffidenza verso tutti gli «orizzonti spirituali» e la mia ostinata fiducia in tutto ciò che è anti-orizzonte, cioè analisi, critica, ricerca metodologica. I sintomi di una precisa, rigorosa intenzionalità analitica sono, nel mondo moderno, meno appariscenti ma non meno numerosi e significativi dei sintomi degli «orizzonti spirituali»: in tutti i campi del sapere. Saranno le ricerche critiche o analitiche a realizzare l’unità metodologica del sapere, a impedire che si formino sistemi chiusi e inevitabilmente dogmatici. Non nego il carattere «spirituale» delle aspirazioni dogmatiche oggi diffuse perfino in campo scientifico: ma affermo la necessità di combattere quella «spiritualità» in nome della ragion critica o della ragione dialettica. Soltanto in quanto il -sapere del futuro sarà ancora fondato sulla critica il ciclo che si apre potrà essere un ciclo storico e non, Iddio ne scampi, il ciclo della spiritualità tecnologica.

 

 

 
       
       
       
       
       
 

 

   
       
       

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