Antologia di giudizi sull'opera di Argan
Giudizi sparsi 1930-94 / Testimonianze 1992-93
Anna Maria
Brizio a Adolfo Venturi (Torino,1 maggio 1930): «Caro Maestro, / Le
ho fatto spedire oggi il III fascicolo de l’Arte. Ma — da buona
redattrice — non mi arresto e penso al seguito. […] Per il fascicolo di
luglio c’è già in redazione anche un articolo sulla critica del Palladio
di Carlo Argan, un laureando intelligentissimo, che mi pare assai buono.
Forse il prof. Lionello gliene avrà parlato. […] Affettuosi e rispettosi
saluti / Anna Maria Brizio» (dalla lettera pubblicata in L. Ficacci,
Nel centenario della storia dell’arte, in Studi in onore di
Giulio Carlo Argan, Nuova Italia, Firenze 1994, p. 53).
Arnaldo
Momigliano a Ernesto Codignola (Roma, 19 novembre 1931): «Illustre
professore, / Mi permetto di approfittare della Sua bontà non per me, ma
per un mio amico di Torino, il dr. G. C. Argan, che Ella conoscerà
certamente di nome, perché è collaboratore della Nuova Italia [la
rivista «La Nuova Italia»]. L’Argan desidererebbe sapere se Vallecchi o
La Nuova Italia sarebbe disposto ad affidargli un manuale di storia
dell’arte per le scuole. Senza voler fare delle gonfiature, non so chi
oggi dei giovani studiosi abbia la preparazione dell’Argan, come
dimostrano i suoi saggi sul Palladio, sulla scenografia,
sull’architettura novecentista comparsi sull’Arte e il saggio sul
Botticelli comparso in Cultura, nonché il maggiore lavoro sui
trattatisti dell’architettura cinquecenteschi a cui sta attendendo e di
cui ha completa e di imminente pubblicazione la parte sul Serlio. Le
posso aggiungere che uno studioso come il Panofsky noto per la sua
severità mi esprimeva tempo fa la sua ammirazione per i lavori di questo
giovane […] / Arnaldo Momigliano» (lettera pubblicata in Una Casa
Editrice tra società, cultura e scuola. La Nuova Italia 1926-1986, a
cura di Alessandro Piccioni, La Nuova Italia, Firenze 1986, p. 59).
La libera
docenza:
Relazione della
Commissione giudicatrice per il conferimento della libera docenza in
storia dell’arte medioevale e moderna:
«La Commissione si è radunata in Roma, presso la Facoltà di Lettere
della Regia Università degli studi nei giorni dal 12 al 17 novembre
1934-XIII. Constatata la regolarità dei documenti prescritti, ha preso
in esame i titoli presentati dal dott. Giulio Carlo Argan, e ha deciso
di ammetterlo alle prove orali. / Il dott.
Argan, laureato in Lettere
con lode nella R. Università di Torino il 1931, ha successivamente
conseguito l’abilitazione all’insegnamento della storia dell’arte nei
Licei, ha vinto la borsa di studio del corso di perfezionamento in
storia dell’arte e della Fondazione Venturi, ha ottenuto un sussidio
della Direzione Generale dell’Istruzione Superiore per un viaggio
all’estero, ha collaborato alla redazione del Catalogo degli oggetti
d’arte, per un anno scolastico ha prestato servizio come assistente
volontario alla cattedra di storia dell’arte del Rinascimento e moderna
nella R. Università di Roma. Nel 1933, infine, ha conseguito per
concorso la nomina ad Ispettore nel ruolo delle antichità e belle arti,
prestando successivamente servizio presso la R. Soprintendenza dell’arte
medioevale e moderna in Torino e presso la R. Galleria Estense di
Modena, dove trovasi attualmente. / Egli presenta al giudizio della
Commissione un numero piuttosto esiguo di pubblicazioni non aventi una
grande mole, ma rivelanti tutte una profonda preparazione e una viva
preoccupazione di risalire attraverso le singole opere alla natura del
fenomeno artistico. Le manifestazioni contingenti egli si studia di
coordinare e vagliare per trarne fuori una determinazione approfondita
delle cause operanti sullo spirito dell’artista e per ricostruire in
unità i caratteri del lavoro creativo. Indagine ardua, che può portare a
conclusioni arbitrarie se non è sorretta da una salda capacità di
ragionamento, da lunga informazione, e da una sicura e diretta
conoscenza dell’opera d’arte. Il dott. Argan, per l’appunto, sfugge al
pericolo di fondare le sue costruzioni sul vuoto grazie alla vasta
cultura e al coscienzioso lavoro d’indagine. Se talora i suoi scritti
appaiono poco chiari e stentati nell’elocuzione, conclusioni originali
compensano quasi sempre della faticosa lettura. / In modo particolare
egli s’è interessato di questioni attinenti all’architettura, come fanno
fede i saggi sul Bramante, su Sebastiano Serlio e Andrea Palladio e gli
scritti brevi, ma profondi, sull’architettura piemontese del seicento e
del settecento. In altri articoli si è occupato con originalità di
particolari argomenti relativi al Botticelli e al Tiepolo, e ha
dimostrato limpidità di giudizio in soggetti di arte contemporanea.
L’amore per le questioni teoretiche lo ha portato anche a ricercare con
acutezza i caratteri della critica d’arte Veneta nel Quattrocento. / Per
la lezione gli è stato assegnato il tema “Sebastiano del Piombo”. Il
dott. Argan, pur non riuscendo a proporzionare armonicamente le varie
parti della sua trattazione, ha dimostrato una buona conoscenza
dell’argomento e un pieno possesso della bibliografia anche
recentissima, dando prova nel complesso di attitudini dialettiche. /
Pertanto la Commissione, unanime, è lieta di riconoscere la maturità del
dott. Giulio Carlo Argan per il conseguimento della libera docenza in
storia dell’arte medioevale e moderna. / La Commissione:
Pietro Toesca,
presidente, / Antonio Munoz
/ Achille Bertini Calosso, relatore» (in «Bollettino
Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», II - Atti di
amministrazione, a. LXII, vol. II, n. 29, 18 luglio 1935, pp.
3215-3216).
Giudizi sparsi in libri e riviste
Giuseppe Pagano, 1940: «Ben pochi
scrittori d’arte antica hanno la competenza tecnica e la sensibilità
critica adatta per assumere l’autorità e la responsabilità di un
giudizio definitivo sull’arte contemporanea. E quei pochi che si salvano
e che dimostrano questa rarissima elasticità mentale tra la cultura e la
vita — come un Marangoni o un
Argan — non si salvano
soltanto per una loro più completa preparazione tecnica ma soprattutto
per il rigore del metodo identico che essi applicano nella critica
d’arte sia essa antica o modernissima; e, in definitiva, per il loro
atteggiamento vivo che non distingue limiti di date nella necessaria
responsabilità morale assunta dal critico per giustificare a se stesso e
agli altri la ragione di un giudizio» (in «Costruzioni-Casabella», n.
150, poi in Architettura e città durante il fascismo, a cura di
C. De Seta, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 204-205).
Sergio
Lodovici,
1942: «Giovanissimo critico di solida preparazione filologica,
tuttavia animato dal moderno spirito di irrequietezza e di ricerca,
l’Argan arriva alla considerazione dell’arte non dalla periferia ma dal
centro. Le premesse della sua critica sono infatti da ricercarsi in una
concezione organica della storia e del prodursi della civiltà tutta.
Nell’economia della storia nulla va perduto: elementi insospettati poi
fruttificano, cifre chiuse alle quali l’erudito sembra rimproverare la
fatica della ricerca, si svelano feconde e piene di futuro. Per arrivare
alla determinazione stilistica, alla qualità effettiva dell’opera
d’arte, il critico si vale di tutti i mezzi diretti e indiretti:
mettiamo, ad esempio, tra i diretti, “l’osservazione analitica
circonstanziata del monumento architettonico” (l’Argan si occupa
prevalentemente di architettura, cioè dell’arte fin adesso meno studiata
e più irta di difficoltà), condizione indispensabile per giungere al
possesso dell’opera d’arte stessa; come anche del trattato teorico nel
quale il costruttore ha espresso con le sue formule anche le sue
preferenze. In effetti, l’opera migliore dell’Argan è diretta a un
sottile scoprimento delle parti vitali delle teoriche artistiche, al
percorrimento di quei labirinti inestricabili che sono i trattati per
rintracciare ivi la genuina anima dell’artista. […] l’analisi
serrata condotta sulle opere dal Quattrocento all’Ottocento, spesso
fissando posizioni critiche affatto nuove, vuol essere una riprova della
validità del metodo alla concreta costruzione storica. Ammettendo di
ogni fatto artistico, purché realizzato, l’identica validità storica, la
coscienza critica dell’Argan non può evidentemente distinguere tra arte
antica e arte moderna; nella quale è da portarsi, ed effettivamente
porta, lo stesso rigore di giudizio. […] È infatti ancora il rapporto di
arte e morale — inteso, naturalmente, al di fuori di ogni contenutismo —
l’oggetto del più recente pensiero critico dell’Argan; e in particolare,
della sua riflessione sull’arte contemporanea» (Argan Giulio Carlo,
in Storici, teorici e critici delle arti figurative
(1800-1940), Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana, Tosi,
Roma 1942, pp. 33-34).
Pierre
Francastel, 1950: «G.C. Argan ha recentemente dimostrato in un
bell’articolo il significato estetico e spaziale della cupola [...]
L’Argan ha luminosamente dimostrato come, per edificare la cupola senza
armature, il Brunelleschi non abbia soltanto inventato nuovi espedienti
tecnici, ma abbia introdotto una nuova concezione estetica dello spazio,
e proprio in funzione di essa si spiega la soluzione empirica data al
problema tecnico del legamento dei materiali» (Peinture e société,
1950, ed. It.: Lo spazio figurativo dal Rinascimento al cubismo,
Einaudi, Torino 1957, traduzione di A. M. Mazzucchelli, p. 27).
Italo Calvino
a Carlo Muscetta (Torino, 26 ottobre 1953): «Siamo contenti del
numero [della rivista «Società» di settembre] che abbiamo letto tutto,
discusso e commentato. Forse Bollati t’avrà già scritto il suo parere.
Il saggio di Argan [su Il moralismo di Picasso], tra i tanti che
se ne sono letti quest’anno è forse quello che va più a fondo, che
ricava dalla molteplicità degli aspetti una fisionomia unitaria, una
definizione convincente» (in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a
cura di L. Baranelli, Mondatori, Milano 2000, pp. 382-383).
Rudolf
Wittkower, 1958: «Vale la pena cercare un comune denominatore per
questo modo di trattare una categoria importante delle immagini
religiose barocche. La tecnica di questi artisti è quella della
persuasione a ogni costo. La persuasione è l’assioma centrale della
retorica classica. In uno scritto illuminante G. C. Argan ha perciò
giustamente messo in rilievo il forte influsso della Retorica di
Aristotele sulla procedura barocca» (Art and architecture in Italy:
1600 to 1750 [1958], ed. It. Einaudi, Torino 1993, p. 122).
Corrado
Maltese, 1964: «Una posizione avanzata nel processo di
storicizzazione integrale e quindi di individuazione di tutti i
riferimenti sociologici dell’opera d’arte occupa l’attività multiforme
di Giulio Carlo Argan. Dotato di una eccezionale capacità di lettura dei
valori concettuali e dei riferimenti culturali impliciti nella forma
artistica e in primo luogo in quella architettonica, nei suoi studi su
Brunelleschi, sull’Angelico, sul Botticelli, sull’architettura del Sei e
Settecento e su quella contemporanea ha costantemente introdotto una
coscienza viva e dialettica dei nessi tra operare artistico e divenire
politico-sociale» (voce Sociologia dell’arte, in Enciclopedia
Universale dell’Arte, vol. XII, Venenzia-Roma 1964, col. 679).
Marisa Dalai,
1966: «[Quelli degli anni Cinquanta] sono saggi in più casi
fondamentali, dove la messa a punto delle condizioni storico-culturali e
tecnico-sociali del fare artistico diviene elemento determinante ai fini
dell’individuazione dell’atto creativo, liberamente colto, al di là di
ogni aprioristico categorismo formalistico, in una sempre diversa
dimensione insieme formale e concettuale, coincidente con la
Weltanschaung propria di ogni artista (la nuova spazialità
matematica per il Brunelleschi; la naturalistica spazialità in
espansione per il Bernini e la simbolica concentrazione spaziale per il
Borromini; l’intuizione fenomenologica dello spazio in Nervi)» (voce
Argan Giulio Carlo, in Grande Dizionario Enciclopedico,
Utet, terza edizione, vol. II, Torino 1966, pp. 119-120).
Bruno Zevi,
1977: «Nel 1936 uscì un libretto, L’architettura protocristiana
preromanica e romanica, cui seguì, l’anno dopo L’architettura
italiana del Duecento e Trecento. Spalancarono un mondo. Certo, gli
edifici erano letti sub specie pittorica, quasi che ogni
superficie fosse un quadro e ogni spazio una “massa atmosferica”; ma
l’individuazione del gioco di quadri e masse era così acuta da
incentivare una svolta critica. […] L’intelligenza critica di Argan è
sconfinata. Non riguarda soltanto Palladio, Brunelleschi, Borromini,
Gropius, ma anche alcuni gesti specifici, ad esempio quello di Carlo
Maderno nell’aula di Santa Maria della Vittoria. Quando non si è
d’accordo con lui (sull’op-art rispetto alla pop-art, sul valore della
tipologia, sul classicismo, sulla fine dell’arte, sul comunismo, sulla
seconda università a Tor Vergata, sulle direttive urbanistiche per Roma,
e via dicendo) gli si è sempre solidali, perché i suoi errori sono il
prezzo di una lucidità che scruta e illumina persino i risvolti della
verità. Non basta: la sua è un’intelligenza generosa, pervasa da una
umanità capace di coinvolgerti, da Rio a Roma, sul tema della morte. Il
guaio sono gli “arganiani”? Ma che colpa ne ha lui, se quelli non
vogliono soffrire?» (in Zevi su Zevi, Magma, Milano 1977, nuova
ed.: Marsilio, Venezia 1993, p. 123).
Nello
Ponente, 1979: «[in Argan] pensiero critico e attività politica sono
due momenti legati da nessi di profonda consequenzialità. È questo che
distingue Argan da altri pur grandissimi storici dell’arte del nostro
secolo, da un Erwin Panofsky per esempio, di cui pure egli ha
attentamente considerato la metodologia, mettendola a frutto e
trasformandola proprio nella considerazione del rapporto e delle
interferenze tra le strutture e sovrastrutture; da un Pierre Francastel,
che pure queste interferenze aveva sottolineato, ma dal quale Argan si
distacca per una più ampia e globale visione dell’attività artistica,
non più ritenuta momento privilegiato ma sottoposta anch’essa, in
negativo e positivo, e direi proprio all’interno di una dialettica
assimilabile a quella del materialismo storico, ai contrasti e ai
conflitti. [...] Argan non avrebbe mai potuto accettare il criterio
dell’oggettività della storia, quale parametro fisso di riferimento e,
di conseguenza, limitare la propria ricerca al riconoscimento di un
“valore” o al riconoscimento meccanico del prodotto. Proprio in questo
consiste quella continua sollecitazione a cui egli ha sottoposto la sua
metodologia. […] Anche per questo lo storico dell’arte doveva essere,
come è stato, il critico militante impegnato nella difesa dei principi
sperimentali dell’arte moderna e della unitarietà della sua
fenomenologia […] E al tempo stesso doveva essere, come è pur stato, il
funzionario dell’amministrazione delle Belle Arti, lo studioso dei
problemi relativi alla tutela e alla riorganizzazione di tutto il
settore dei beni culturali, il docente universitario capace di
trasmettere questo stesso impegno e, con assoluta consequenzialità,
ripeto, il sindaco di una città in cui proprio gli interessi privati, la
speculazione selvaggia, il caos urbanistico, non solo hanno prodotto
guasti irreparabili al patrimonio artistico, ma hanno anche ridotto la
“produttività” culturale» (Più di mezzo secolo d’amore coi grandi
maestri dell’arte. Giulio Carlo Argan compie settant’anni: rivisitiamone
l’intensa vita, in «Paese Sera», 17 maggio 1979).
Manfredo Tafuri, 1982: «Nel ’51
Giulio Carlo Argan risponde implicitamente al disegno contenuto nella
Storia zeviana con un volume pubblicato anch’esso da Einaudi,
dedicato a Walter Gropius e la Bauhaus. Non si tratta di una
contrapposizione di linee normative. Il Gropius ricostruito da Argan è
erede dell’etica protestante così come viene interpretata da Weber e da
Troeltsch, è portatore di un mito europeo della ragione “che reca in sé
i germi del dubbio e del disinganno”, è protagonista di un salvataggio
in extremis “di un’idea di civiltà dall’inevitabile collasso della
classe dirigente”. La “razionalità” di Gropius, come quella di Le
Corbusier o di Mies —
preciserà più tardi Argan —
nasce “da un’ultima illusione d’immunità portata nel vivo della
mischia”, dato che il concetto moderno di libertà non è più
identificabile con una “sconfinata effusione nell’immenso dominio della
natura”; la fedeltà a quella lezione, già data come perdente sul piano
ideologico, è considerata un’imprescindibile necessità. Difficile
lettura, quella di Argan, per la cultura italiana dei primi anni
cinquanta. Considerate con un rispetto proporzionale all’incomprensione,
le pagine di Argan formano un’elite di giovani storici, ma, come quelle
di Zevi, non modificano sostanzialmente la vicenda architettonica» (in
Storia dell’arte italiana, vol. VII, Einaudi, Torino 1982, poi
edito come libro a sé stante: Storia dell’architettura italiana
1944-1985, ivi, 1986, p. 30).
Filiberto
Menna, 1984: «…la matrice del pensiero di Argan è di natura
criticistica, come lui stesso ha detto in più di un’occasione, ma
bisogna subito aggiungere che il criticismo di Argan e la razionalità
che ne deriva sono continuamente posti al confronto con una realtà
ambigua e sfuggente come quella dell’arte e delle opere d’arte. È questo
confronto costante che conferisce una connotazione particolare al
razionalismo di Argan e fa del suo criticismo uno strumento flessibile,
aperto alle contraddizioni del reale, finanche consapevole della propria
provvisorietà. […] l’incontro con Klee si ricollega all’incontro con
Husserl che nell’itinerario intellettuale di Argan segna un momento non
meno decisivo, il luogo in cui la razionalità critica di derivazione
settecentesca subisce una specie di sprofondamento, s’intreccia più
direttamente e inestricabilmente con la totalità del soggetto, conscio e
inconscio. Anche il progetto, produzione paradigmatica della ragione,
cambia di segno, retrocede, per così dire, a uno stadio anteriore, più
magmatico e contraddittorio, quindi più complesso e più ricco,
potenzialmente aperto a costruire una ragione diversa, o come si direbbe
oggi, un nuovo stile di razionalità. […] Attraverso Klee e Husserl il
concetto di razionalità, che guida Argan nella interpretazione dell’arte
moderna, acquista in complessità e in articolazione fino a superare
quello che è stato definito “il modo razionalistico di intendere la
ragione”. Il soggetto si riconosce come portatore di una razionalità
legata a una costruzione nel tempo che ha una sua temporalità storica,
ad un processo lento e discontinuo di emersione dal e dentro il mondo
della vita. Il soggetto riconosce quindi la discontinuità e la
precarietà della propria autoconsapevolezza, la discontinuità e la
precarietà della stessa ragione, ma nondimeno sa di non poter che
affidarsi ancora ad essa» (Argan o della ragione critica, in «Le
Arti news», a. II-III, n. 5-6 1983 - n. 1 1984, p. 6).
Alvar
Gonzalez Palacios, 1990: «Davanti a chi mi trovo? Chi è questo
signore compito e cortese che sfugge con scienza arcana le mie domande e
segue il filo elegante del suo pensiero rispondendo con garbo solo a
quello a cui gli interessa rispondere? L’abilità è somma; si direbbe che
il Professor Argan sia l’ultimo dei grandi dialettici, una sorta di
esercizio vivente di mirabile retorica. Dico questo senza ironia alcuna:
ero pronto — trovandomi io su un fronte molto diverso del suo — a non
farmi incapsulare nella crisalide dei suoi ragionamenti ma — è gioco
ammetterlo — resto affascinato dall’intelligenza e dalla concreta
sobrietà della parola, dallo scorrere di un pensiero che si svolge sotto
i miei occhi con la precisione di un meccanismo perfetto. […] Non mi era
prima accaduto con nessuno: l’uomo quando parla difficilmente è in grado
di evitare espressioni colloquiali o che poco conto tengono della
sintassi. Nulla di tutto questo ora: le frasi escono come Minerva dal
cervello di Giove, armate di tutto punto. […] Questo uomo che non
risponde quasi mai a quello che gli si chiede è forse un sublime
egoista, un moralista, un asceta? Non sono in grado di rispondere. Posso
solo aggiungere che più delle cose in se stesse egli sembra interessarsi
del loro significato: è l’idea, e non l’incarnazione fisica in un
oggetto singolo, quel che sembra guidarlo. […] Non ride. Questo è il
personaggio pubblico. Finito il nastro della intervista che gli avevo
fatto, però, mi sono trattenuto un altro poco col professore. Ho
scoperto una persona, una persona che non disconosce i lati faceti delle
cose» (L’ultimo dei grandi dialettici, in «Il Giornale
dell’arte», dicembre 1990, riedito con il titolo Il professor Argan,
in Il velo delle grazie, Allemandi, Torino 1992, pp. 171-173).
Giuseppe Chiarante, 1994:
«…per Argan l’impegno civile non
era qualcosa che si sommava, quasi dall’esterno, o si sovrapponeva al
suo ruolo di studioso e di ricercatore; tanto meno era semplice
testimonianza, o la difesa e la giustificazione propagandistica
dell’iniziativa politica, secondo una visione dell’intellettuale
engagé che era stata di moda subito dopo la guerra ma dalla quale
non a caso Argan era sempre rimasto, e spesso anche polemicamente, molto
lontano. Per lui l’impegno civile faceva invece tutt’uno con un’esigenza
di costante criticità, con una fiducia quasi illuminista nella ragione,
una fiducia alla quale si ispirava così nella sua ricerca di studioso
come nella sua azione politica: faceva tutt’uno, in sostanza, col suo
modo di intendere la civiltà e la cultura. Anche il suo accostamento al
marxismo, anche la sua scelta di comunista furono caratterizzate da
questo costante rigore critico. […] Nei discorsi parlamentari questo
impegno civile si manifesta nel modo stesso di affrontare i temi della
politica dei beni culturali. Spesso si è parlato, a questo proposito, di
uno statalismo di Argan […] era in realtà altra cosa: era la domanda
esigente, che il grande intellettuale, lo storico dell’arte apprezzato e
conosciuto in tutto il mondo, rivolgeva allo Stato italiano e alla sua
classe di governo, di essere consapevoli dello straordinario patrimonio
di civiltà e di cultura che il nostro paese è chiamato a tutelare: una
domanda esigente che diventava di necessità critica spietata di ogni
atto di ottusità, di incultura, di grettezza, ma che al tempo stesso si
traduceva sempre anche nella proposta positiva, nella ricerca della
collaborazione, nello stimolo ad operare per rimuovere i guasti e per
garantire nel modo migliore la tutela, la catalogazione, il restauro,
tutti gli atti indispensabili per la salvaguardia di ciò che ancora
poteva e può essere salvato dall’insieme dei beni culturali e ambientali
che costituiscono la prima ricchezza del nostro paese» (Impegno
civile e criticità della ragione nell’opera di Giulio Carlo Argan, testo scritto per la presentazione del
volume Discorsi parlamentari, Roma
3 marzo 1994; in Beni culturali tutela investimenti
occupazione, «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli»
n. 1, Roma 1994, pp. 9-13).
Articoli e testimonianze 1992-93
Carlo Bertelli: «Radicato
nell’arte del passato, aveva scelto di dedicarsi soprattutto allo studio
dell’architettura del nostro tempo. Era nel gruppo che faceva capo a
Pagano e a Persico, dove avrebbe trovato la sua sposa, Anna Maria
Mazzucchelli. Nel 1951 il libro su Gropius era apparso un manifesto su
quel che si dovesse fare, ma già con il pessimismo che separa il
progetto dal destino. […] Nella sua non breve vita Argan aveva tentato
più volte di utilizzare il politico per un proprio più vasto disegno:
far scaturire elementi di liberalismo dall’azione di Bottai, attribuire
a Berlinguer un modello di sviluppo compatibile con un vero “design” del
Paese; questo dopo aver avuto a lungo fiducia nelle capacità di
trasformazione moderna della società italiana sostenuta da socialisti
come Morandi e Ruffolo. Nel 1954, al convegno tenutosi alla Triennale,
Giulio Carlo Argan aveva parlato suscitando entusiasmi del design come
“fattore d’integrazione sociale”; anche città e territorio sarebbero
stati socialmente integrati dalla realizzazione di un considerato
disegno. Ricordo una conversazione con Argan di vent’anni dopo, nel suo
studio di sindaco sul Campidoglio. Mi parlò con insistenza di Amsterdam,
nella fiducia che almeno alcune parti di quella civiltà pianificante e
dotata di così spiccato senso pubblico potessero essere assorbite da
quella Roma palazzinara e borgatara, capitale fallita, costruita fra
insanabili contraddizioni. Intanto era però merito del “razionale” Argan
avere istituito un assessorato per il centro storico, ben consapevole di
come questa parte delicatissima della città necessiti di provvedimenti
del tutto specifici, non assorbibili in uno schema generale di sviluppo»
(Un illuminista in Campidoglio
tra Michelangelo e Berlinguer,
in «Il Corriere della Sera», 13 novembre 1992,
p. 33).
Giuliano Briganti: «…la fedeltà
di Argan alle proprie idee, alla propria visione delle cose, alla guida
unica del razionalismo più cristallino, era indubbiamente superiore al
normale. Con i pregi e con i difetti che una siffatta fedeltà ferrea e
assoluta comporta. Se si deve parlare di coerenza, Argan è stato un
mostro di coerenza, nonostante alcune contraddizioni molto appariscenti
ma soltanto apparenti della sua lunga vita. Quando lo conobbi, in quegli
anni per me generosamente immaturi sui quali si addensava all’orizzonte
la nuvola nerissima della guerra imminente e che già presentivamo carica
nel suo buio seno di tutte le catastrofi che poi si scateneranno su di
noi, io ero legatissimo a Carlo Ludovico Ragghianti […] Argan che veniva
dalla scuola di Lionello Venturi, ma aveva conosciuto Panofsky,
frequentato l’ambiente degli architetti di “Casabella” (dove conobbe sua
moglie), i protagonisti dell’astrattismo milanese e già si occupava del
“Bauhaus”, aveva origini ben diverse, indubbiamente più “moderne”,
nutrite di un rigoroso astrattismo ansioso di definirsi
metodologicamente, ma, in quei primi anni, ci fu, fra loro una certa
amicizia, anche se non proprio cordiale, e una stima reciproca.
Naturalmente intorno a quel tavolo eravamo tutti antifascisti e Argan in
quel senso si univa a noi con sincera adesione. […] Io scrissi una
volta, e lui me lo rimproverò sorridendo, che quando lo leggevo non
trovavo mai il filo conduttore che porta dal cervello al cuore o
viceversa. Ora che non c’è più, mi affiora un ricordo che testimonia
invece come la mancanza di quel filo non fosse sempre del tutto reale» (Caro Argan amico e nemico,
in «La Repubblica», 13 novembre 1992,
pp. 32-33).
Achille Bonito Oliva: «Egli era
interessato al valore politico dell’arte e non al suo valore morale.
Nell’artista cercava il suo essere partecipe, attraverso la forma, alla
trasformazione e al progresso sociale. Lo schema storicista sostiene
tutto il suo pensiero critico portandolo talvolta a precludersi la
comprensione di fenomeni importanti: come la Pop Art americana. Il
paradosso teorico di Argan sta tutto qua: teorizzare da una parte
l’autonomia dell’arte ma richiedere, poi, un collegamento dell’opera e
del comportamento dell’artista con le ideologie politiche della
sinistra. […] Più la forma era oggettiva, non attraversata da pulsioni
espressive, e più dal suo punto di vista riusciva ad ottemperare alla
sua funzione di servizio sociale. E perciò, silenziosamente, negli
ultimi decenni, accolse il concetto della morte dell’arte: non
rintracciava, infatti, nei fenomeni dell’ultimo ventennio, tendenze
artistiche in conflitto attivo con il corso della storia. […] Da qui è
nato il sospetto che Argan, in fondo, non amasse l’opera d’arte, in
realtà egli si impediva questo piacere, facendo prevalere un calcolato
furore ideologico, il vezzo moralista di una radice calvinista. Il suo
vero piacere stava, tutto sommato, proprio nel linguaggio critico. La
sua scrittura cristallina, elaborata a mano con caratteri minuziosi,
testimonia, alla fine, il piacere di una analisi che spesso sopravanzava
il valore stesso dell’opera. E, per questa via, sfidava l’identità
dell’arte mediante una “cosa mentale”: la critica» (Senza
amore per l’arte, in
«L’Espresso», n. 51, 20 dicembre 1992, pp. 108-109).
Rossana
Bossaglia: «Argan era
sì uno storico e amatore d’arte, e come tale può essere accettato o
contraddetto, ma era, soprattutto, un intellettuale, e questo non è
stato, salvati pochi casi, considerato a sufficienza. È come
intellettuale che dobbiamo inserirlo nel contesto dei suoi interessi e
dei suoi studi; come persona dalla mente acutissima e dalla bellissima
ampiezza di vedute, che si poneva di fronte ai problemi sempre in
maniera geniale e originale: ci ha aperto strade, indicato
interpretazioni, sottoposto dubbi; non certo per il gusto della battuta
o della divagazione salottiera ma nella convinzione profonda che la
cultura è una sola, pur se gli specialismi sono professionalmente
necessari; e la vita morale e spirituale è una sola, arte ed etica,
etica e politica sono un tutt’uno. Il divario tra la qualità del suo
discorso e la maniera in cui fu talora recepito (e banalizzato) si può
verificare nel caso delle volgari e grezze proteste con cui fu accolta
la sua riflessione posthegeliana sulla “morte dell’arte” […] Dal
coro di testimonianze che si è levato alla sua morte si evince con
chiarezza che Argan aveva il dono non solo di una signorile affabilità,
ma di prestare attenzione alla persona con cui si intratteneva o
conversava, di stabilire ogni volta un rapporto con il suo
interlocutore. Per questo tutti quelli come me che hanno avuto
consuetudine con lui lo hanno sentito come un amico e lo piangono come
un amico. Un uomo di potere, dicono un poco innervositi quelli che non
hanno avuto la fortuna di un’intesa con lui. Ma Argan non amava il
potere; amava il prestigio; il potere uno lo può agguantare, il
prestigio fiorisce dalle qualità della persona» (Un maestro di nome
Argan. Grandi meriti inutili polemiche, in «Il Corriere della Sera»,
25 gennaio 1993, p. 17).
Enrico
Crispolti: «Ciò
che maggiormente ha caratterizzato il
fare storia dell’arte e critica d’arte da parte di Argan è certamente
stato una considerazione nuova della componente ideologica nella
“poetica” dell’artista come nell’opera d’arte. Non tanto tuttavia la
componente di una specifica ideologia, e in effetti neppure il marxismo
negli anni a partire dal suo impegno politico-amministrativo, quanto
l’attenzione alla valenza delle idee nell’opera d’arte contenute, e
insomma al suo riscontro teorico. L’opera d’arte dunque non
semplicemente un esito di creatività immaginativa, quanto un evento di
pensiero attraverso il linguaggio visivo. […] ha portato nella storia e
nella critica d’arte il peso di una verifica di consistenza teorica
sull’opera quanto sulle intenzioni del suo autore, come preminente; di
una verifica di consistenza di idee e quindi di visione e giudizio del
mondo e specialmente della società dall’artista attraversata. Fu il suo
grande insegnamento che, se non spiazzò la taratura di un idealismo a
lungo impenitentemente presente nella cultura italiana nelle vesti più
diverse, lo spinse comunque ad una sua conseguenza cruciale. Argan di
formazione non era tanto crociano quanto gentiliano. E infatti la
valutazione ideologica assunse per lui spesso un ruolo anche
aristocratico, di considerazione essenziale della progettualità
dell’opera stessa, e attraverso questa della consistenza del pensiero
medesimo dell’artista, a scapito di una più fattuale considerazione
fenomenologica del linguaggio artistico nella sua sempre diversa
concretezza. [...] Per Argan insomma la storia dell’arte fa parte
preminentemente della storia delle idee. E all’individuazione di un
contenuto ideologico nel fare dell’artista, del passato quanto
contemporaneo, ogni misura di considerazione portata sulla specificità
del linguaggio conseguiva a una tale impostazione» (Argan, l’arte
delle idee, in «L’Unità», 13 novembre 1992, p. 17).
Antonio
Pinelli: «Argan
non fu un intellettuale prestato alla politica, un sindaco “fiore
all’occhiello”: l’azione politica, l’impegno civile erano la naturale
estensione delle sue idee e del suo lavoro di storico dell’arte. […] Da
Venturi Argan aveva appreso a saldare passione civile e impegno
culturale […] ma aveva anche imparato a far convivere, anzi a far
coincidere lo studio del passato, l’indagine storica, con l’azione
militante, la critica del presente. […] Tutti conoscono l’acuminata
intelligenza con cui Argan disseziona intenti e programmi, significati e
moventi dell’opera d’arte. E se non tutti, molti conoscono anche le
obiezioni che sono state mosse da più parti a questo modo di far
critica, che a volte sembra privilegiare la storia delle idee su quella
dei concreti manufatti artistici, la “filosofia dell’arte” sulla
conoscenza “materiale” delle opere d’arte. È una critica che io stesso,
per certi aspetti del lavoro storico di Argan, mi sento di condividere.
Ma per chi, come me, ha avuto la fortuna di formarsi alla sua scuola,
queste riserve non offuscano minimamente l’orgoglio e la riconoscenza
per aver avuto un maestro che prima e più che una tecnica di approccio
all’oggetto dei nostri studi, ci ha insegnato a guardare alle opere
d’arte come a pregnanti testimonianze del lavoro e della cultura
dell’uomo; testimonianze speciali, certamente, per decifrare le quali
occorre saper spaziare con ardimento e riconnettere i mille fili che le
collegano a tutte le altre branche del sapere: dalla filosofia alla
scienza, dalla storia delle idee a quella degli uomini e della società»
(Erede di Venturi, critico con arte, in «Il Messaggero», 13
novembre 1992, p. 19).
Pierre
Restany: «Proseguendo
sulla linea di Lionello Venturi, Argan trovò nell’arte contemporanea, a
partire dagli anni Cinquanta, un terreno ideale di analisi in cui ebbe
la possibilità di proiettare pienamente la lezione spirituale e formale
dell’arte antica. Il suo rigore costruttivo lo portò a promuovere,
all’inizio degli anni Sessanta, ricerche artistiche in tutto il
territorio nazionale. Mantenne sempre la sua inflessibile lucidità: i
suoi famosi articoli apparsi sul Messaggero nel 1963 illustrarono le
aperture ma anche i limiti di quest’estetica di gruppo. […] L’influenza
di Argan ha avuto la sua piena dinamicità in ambito progettuale e
costruttivo, ove ancora reggono i suoi parametri di giudizio logico e
articolato, Argan ha saputo dimostrarsi anche un osservatore acutamente
critico nei settori in cui l’arte raggiunge la vita, dal punto di vista
della correlazione fra l’esistenza e l’essenza […] Argan era per me un
amico e qualcosa di più di un maestro; un punto di riferimento morale,
un fatto di principio e di onestà nella mia ricerca intellettuale. Argan
non tollerava le approssimazioni e le ambiguità nel pensiero teorico. Ho
scritto molte cose pensando a lui e forse questi testi sono i più cari
al mio cuore. La perfetta organizzazione del suo cervello non gli
impediva di lasciarsi andare ogni tanto al delirio immaginativo, un
delirio metaforico s’intende, dove si poteva intravedere, al di là della
bellezza del linguaggio, uno sfogo di profonda generosità umana. Di
questa grande apertura poetica Argan ci ha lascialo un’ultima traccia
monumentale: il suo libro su Michelangelo architetto, vero dialogo, al
di là del tempo e dello spazio, dell’autore piemontese con il maestro
toscano. Della storia dell’arte Argan aveva una visione totale,
sintetica, enciclopedica, e in questo umanesimo multiforme
l’architettura, il design e l’arte avevano le loro giuste, naturali e
poetiche funzioni» (Giulio
Carlo Argan uomo del suo tempo,
in «D’Ars», a. XXX, n. 137, autunno 1992, pp. 6-7).
Angelo
Trimarco: «L’interesse per il Moderno e i rapporti fra modernità e
arte contemporanea sono, senz’altro, lo snodo intorno al quale Argan ha
costruito un lungo, ininterrotto, racconto: un racconto nutrito non
soltanto di artisti e di opere ma di idee e trame filosofiche, di
tensione morale e slanci vitali. Di questa complessità Argan è stato,
fino all’ultimo, testimone e protagonista: intransigente, e, insieme,
comprensivo delle posizioni altrui, tollerante ma fermo nel credere che
i valori della ragione sono ancora attivi e fecondi. Capace, comunque,
di tornare a discutere le sue stesse scelte quando uno spiraglio si
riapriva. […] Perciò ha potuto anche confessare senza pudori: “Con
quell’idea essendo vissuto, spero di arrivare alla fine dei miei giorni
sempre fermamente persuaso che nulla al mondo è, in sé, razionale, ma
nulla c’è di tanto irrazionale che il pensiero umano non possa
razionalizzare”. Dove razionalizzare non signifIca, per Argan,
imprigionare in formule rigide lo scorrere dell’immaginario e i suoi
segreti percorsi. Significa (ha significato), piuttosto, cogliere nessi,
stabilire relazioni, intrecciare corrispondenze, avviare incontri
solidali fra le strutture del pensiero e le rappresentazioni culturali.
L’arte e il pensiero non vivono in mondi separati e distanti ma
s’incrociano e si attraversano nel movimento rapido e crudele della
storia. In questo senso l’arte come il pensiero sono produzioni
storiche, esposte come ogni altra attività alla vita ma anche alla
morte. La morte dell’arte non è altro, alla fine, che il declino di una
modalità dell’agire umano […] La difesa dei valori e della ragione
contro la barbarie dell’irrazionalismo (che temeva prossima), nella vita
del pensiero come in quella dell’arte, è stata la sua ultima, lucida,
sfida che egli ha giocato. In difesa della ragione ma non del
dogmatismo, della storia ma non dell’incerto passato e della tradizione
sterile» (Il gran narratore dell’arte italiana, in «Il Mattino»,
13 novembre 1992,
p. 14).