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Un dizionario per citazioni

Argan in 54 voci

 

 

Assemblee in fabbrica: Ho chiesto [agli operai] di scusarmi se parlavo loro come un professore; ma lo sono da quaranta anni e non so fare altro.

 

Autorità: In tutta la mia lunga strada di lavoro, mi sono sempre sforzato di eliminare radicalmente, come principio di metodo, ogni a priori metafisico, cioè ogni postulata autorità divina.

 

Barocco: I Papi tentano il rilancio di un artigianato tutto immaginazione; è il modo di riempire il mondo di immagini suggestive, splendenti, edificanti. L’immagine che già col Tasso diventa immagine «pesante», a forti contrasti, tintorettesca, non più l’immagine leggera e variopinta dell’Ariosto, è un’immagine di cui si porta la responsabilità morale, con cui si prega o si pecca. D’immagine ci si salva e ci si danna.

 

Bisonti: Sono di quelli che si illudono ancora di non essere diventati bisonti, dirò citando Ionesco.

 

Bottai: Ha sempre appoggiato l’arte moderna, a volte in netto contrasto con la linea ufficiale, specialmente con Farinacci. Eliminò Ugo Ojetti dalla carica di presidente del Consiglio Superiore. Appoggiò, come contraltare del Premio Cremona (Farinacci e Ojetti) il Premio Bergamo, dove furono premiati artisti che certo non erano in odor di santità, come Mafai, Guttuso, Birolli. E nominò professori di Accademia i migliori artisti italiani: Casorati, Paulucci, Guttuso, Manzù, Marino Marini, Carrà. Credo che queste cose vadano ricordate.

 

Capire: E al mondo non c’è niente di più bello che capire. C’è chi mi rimprovera di avere qualche volta cambiato parere. Per fortuna: se oggi pensassi come dieci anni fa mi vergognerei, dieci anni perduti.

 

Chiesa: Non sono credente. La Chiesa, per me, è una grande istituzione, che ha una genesi e una dimensione storiche di cui non si può non tenere conto, ma con cui si può avere un rapporto non fideistico.

 

Civiltà morta: Come storico dell’arte, mi occupo di cose di una civiltà morta. Quarant’anni fa, quando ho cominciato, effettivamente quei fenomeni continuavano: Matisse era allora un mio contemporaneo, oggi non lo è più. Indubbiamente, ho vissuto l’esperienza della contemporaneità, oltre che dell’incontro personale, con Matisse, Picasso, Le Corbusier, Gropius, Wright... Ecco, quando dico che quella civiltà è una civiltà morta non dico affatto che la civiltà di domani non avrà la sua componente estetica. L’avrà di certo, non ne dubito; o magari ne dubito, ma non lo dico. Però, se l’avrà, sarà con caratteri del tutto diversi da quelli di oggi. E a determinarla non saranno le tecniche che chiamiamo artistiche.

 

Croce, Benedetto: Eravamo tutti crociani, e non mi rammarico di esserlo stato. Ho conosciuto Croce, l’ho ammirato: il suo pensiero chiaro come un cristallo, ed esposto con tanta civile eleganza, ha avuto un’importanza enorme nella mia formazione. Sono grato a Croce (e a Venturi; ma anche Venturi era crociano) per avermi insegnato a odiare ogni dogmatismo e a fare, sempre, della critica... Con l’immenso rispetto che avevamo per lui, vessillo dell’antifascismo intellettuale, Croce ci apparve, quando scoppiò la guerra, come un don Ferrante morto di peste negando la peste.

 

Coerenza: Nella mia lunga esistenza di studioso mi sono occupato un po’ di tutto: pittura, scultura, architettura, design, antico e moderno, urbanistica, metodologia, politica culturale. Non fu eclettismo né versatilità, per quella mobilità d’interessi non credo di meritare né elogio né biasimo: volendo seguire il corso di un pensiero espresso in immagini, bisogna pur coglierlo là dove, spesso imprevedutamente, emerge e si mostra. Non provo alcuna vergogna a dire che, a me critico, non tanto l’arte interessava quanto la critica: le opere d’arte erano, per me, gli oggetti che meglio si prestavano a fare critica, proprio perché, non essendo in sé razionali, potevano e dovevano essere razionalizzati per sussistere e valere in una cultura che era fondamentalmente razionale. Ecco perché ho sempre cercato la coerenza non nelle cose, ma nel pensiero che le pensava.

 

Estate romana: Un’operazione intelligente e spregiudicata, che è stata per la pigra cultura romana come una doccia fredda. A parte l’interesse, la tempestività, l’attrattività della manifestazione, quel tipo di uso della città era un’interpretazione della sua crisi. Di crisi si può morire, ma intanto si vive. L’Estate romana, e Nicolini lo sapeva, era come un quadro di Ensor: allegro con risvolti tragici, anche agghiaccianti. La gente si divertiva ma non sapeva che cosa ci fosse sotto.

 

Etiopia: Ricordo una sera del ’36 in cui ci trovammo a cena io, Brandi, Ragghianti e Antonino Santangelo, tutti storici dell’arte; parlammo fino a tarda notte del senso di colpa di fronte alla gratuita aggressione perpetrata dal fascismo.

 

Expertises: Non impediamo agli studiosi di fare le expertises, le facciano pure, ma a una condizione: che ogni tre mesi si pubblichi un bollettino di tutte le expertises, con foto e testi fatte dai vari studiosi. Se si fa il mercato come ricerca e il fine è la conoscenza, perché non pubblicare i risultati? Se le expertises sono fatte onestamente, non si deve avere alcun timore e grande sarebbe il vantaggio per gli studi. Strano, non c’è stato nessuno che abbia detto di sì.

 

Filosofia: Indubbiamente, io non sono un filosofo; m’interesso molto di filosofia ma non sono un filosofo. Mi servo delle filosofie del mio tempo in quanto mi permettono di spiegarmi il fatto artistico.

 

Freud, Sigmund: Il freudismo ha aperto non solo all’arte una fenomenologia, non più dello spirito, ma dell’esistenza; ha eliminato ogni categorizzazione o classificazione; ha nobilitato pericolosamente il Sosein husserliano, allineando l’inconscio all’eidetico; ha messo in crisi la storia, dimostrando la non-gerarchia e l’occasionalità del ricordo; come ha scompigliato il passato, ha reso più aleatorio il futuro, scoraggiando ogni progettazione. Ha offerto un’esistenza mille volte più ricca incitando al nominalismo contro ogni categorismo. Mi rendo conto che il nominalismo e il fenomenismo illimitati aprono orizzonti sconfinati alla cultura, anzi all’esistenza. Ma non posso nasconderti che, rendendomi conto dell’enorme importanza della grande dis-inibizione che comincia con Duchamp, rimango e rimarrò fedele fino alla morte all’opposta «riduzione» razionalistica di Mondrian. E’ molto probabile che abbia torto, ma ne faccio un punto di onore. Quando mi si offre la più ampia «liberazione» ammonendomi che legittima anche il fideismo e magari il fanatismo, penso che il mio vecchio, logoro, contestato razionalismo mi inibisce proprio questo, il fideismo.

 

Giudizio: La critica d’arte è la reazione ad un evento - l’opera - che accade sotto i nostri occhi. Comunica notizie, ma con un’annessa idea del valore. Tutti sappiamo che non si giudica un’opera d’arte se non dopo una prima adesione o repulsione: in pratica, tutto il nostro processo, è rivolto a razionalizzare quel primo movimento: abbiamo davanti a noi un dato che è stato fatto apposta per suscitare in chi guarda un certo tipo di emozione, dopo averla provata l’analizziamo ed è l’analisi di un rapporto tra un emittente e un ricevente. Il dato è stato fatto in modo da essere suscettibile di più, molte, infinite interpretazioni. Noi, con il giudizio, prendiamo atto di una condizione di libertà che l’opera d’arte ci garantisce. Il giudizio è infatti un atto di libertà rispetto a un oggetto. Dirò allora che la struttura dell’opera d’arte, che ci costringe a giudicare, è liberatoria; la struttura del medium di massa, che ci priva della libertà di giudizio, è repressiva.

 

Idealismo: Io vengo imputato di idealismo e spiritualismo, ma se essere idealisti significa aver letto Kant ed Hegel, non mi dispiace di venir svergognato come idealista da chi, manifestamente, non ci ha provato.

 

Impegno pubblico: Sull’ultima parte della domanda [il primo, non reticente, impegno pubblico, il primo gesto di vera e propria milizia, in fondo, essere stato, l’aver accettato la carica di sindaco di Roma] non sono d’accordo. La carica di sindaco non è il primo impegno pubblico: anche occuparsi del patrimonio culturale, anche fare il professore sono impegni pubblici di grande responsabilità... Non vedo perché gli studiosi non debbano rivestire cariche pubbliche; accettando di diventare sindaco mi è parso di affermare il principio che gli studiosi possono e debbono far parte dei pubblici servizi, come qualsiasi altro cittadino.

 

Irrazionale: Non credo che l’irrazionale sia malattia mentale, vi sono addirittura filosofie intrinsecamente irrazionali.

 

Laica, arte: Fu dunque laica l’arte barocca, tanto spesso incolpata di essere conformista e ipocritamente divota? Fu laica anche se servì la Chiesa: poteva accadere anche allora che lo zelo divoto incoraggiasse la religione a convertirsi in politica.

 

Lavoro: Il lavoro dello Storico dell’arte o di chiunque si occupi di fenomeni artistici Consiste eminentemente nell’occuparsi di cose... Non credo assolutamente all’arte come entità metafisica a cui si debba assicurare una specie di culto continuo da parte della gente. Non ho mai pensato questo. L’arte è un insieme di cose, un insieme più esteso e più vasto di quanto la gente non creda. Compito di chi si occupa dell’arte è dunque di occuparsi di queste cose. Direi che tale atteggiamento - che un tedesco chiamerebbe del besorgen, dell’avere a cuore le cose - è congeniale allo storico dell’arte, che è il solo storico che faccia la storia in presenza di eventi e non solo attraverso la loro memoria scritta. Infatti, lo storico che scrive di Piero della Francesca o di Vermeer si trova davanti alle loro opere; lo storico che scrive la storia di Napoleone non si trova in presenza di Waterloo; e quei fatti - direbbe il mio amico Cesare Brandi - sussistono ancora nella loro originaria flagranza. Nella loro originaria condizione certamente no. Ma la condizione in cui oggi li riceviamo è anche la documentazione di un percorso compiuto nel tempo, della fruizione che di queste cose bene o male si è fatta. Ecco il punto che sollecita un interesse pratico. Noi abbiamo interesse che il mondo attuale seguiti a fruire di quelle cose, e così pure il mondo di domani.

 

Longhi, Roberto: Sono stato amico, per qualche tempo, di Roberto Longhi. Ci si vedeva tutti i giorni, tra il ’39 e il ’41, nell’allora ministero dell’educazione nazionale... I nostri rapporti si sono poi incrinati, dopo la guerra, a causa della “Caduta di San Paolo” Balbi Odescalchi, che io avevo indicata come Caravaggio e che lui aveva attribuito in un primo tempo a pittore fiammingo verso il 1620.

 

Longhi/Venturi: Tra Longhi e Venturi c’era, indipendentemente da altri motivi, un forte contrasto sul piano metodologico: Venturi aveva sempre di mira la teoria dell’arte, anzi la storia delle teorie dell’arte, gli avversari lo accusavano di amare più le loro idee che le opere d’arte; Longhi era il grande, finissimo conoscitore, intento alla lettura del tessuto storico in cui nasce l’opera, e inoltre un letterato e uno scrittore di estrema acribia verbale.

 

Marx, Karl: Non è marxista questa posizione? Può darsi, anche perché la concezione dell’arte in Marx giovane è ancora idealistica e dopo, che io sappia, di arte non si è più occupato a fondo. Comunque, in fatto di concezione dell’arte, non mi sento debitore verso Marx: parecchio debbo, invece, alla sua concezione della storiografia, che ha molto influenzato la mia interpretazione storica dei fatti artistici.

 

Metodologie: Noi [storici dell’arte], abituati a storicizzare in presenza del fatto, possiamo fornire un utile principio metodologico al mondo che vorremmo fosse in grado di storicizzare al cospetto dei fatti. Oserei dire che la storia dell’arte è stata una metodologia pilota anche rispetto ai rinnovamenti della storiografia più avanzata, come mi sembra sia la scuola storiografica francese: storia della mentalità e non più Storia dell’ideologia, delle istituzioni, del potere. La storia dell’arte ha qualche vantaggio, ammettiamolo, anche perché gioca sull’esperienza visiva. E come vi è arrivata? Attraverso un processo di analisi storica congiunta con l’analisi di quelle contrazioni del tempo che si sono andate accentuando sempre più in seno allo stesso valore dell’opera d’arte. L’opera, che il classicismo dava per eterna, la si è voluta dapprima temporale, poi tempestiva, poi addirittura precorrente, e infine consumata prima ancora di esistere.

 

Mercato e storici dell’arte: Considero la collusione con il mercato come una deviazione dalla deontologia di fondo della nostra disciplina; la quale deve mirare a portare il bene artistico a contatto con la comunità, mentre il mercato è sempre una forma di privatizzazione. E la considero contraria, deontologicamente negativa, quando anche il mercato, cosa abbastanza rara, venga fatto onestamente. La considero come una defezione, e talvolta un tradimento perché lo storico dell’arte deve anzitutto occuparsi di cose, avere cura delle cose e la conservazione delle cose dev’essere fatta nell’interesse generale.

 

Moderno: Gli storici dell’arte della mia generazione la questione del barocco l’hanno veduta nascere, proprio nel momento decisivo della loro formazione. Se la sono portata dietro per tutta la vita, e non è finita: oggi si ripresenta, più sfumata, come aspetto particolare di un problema più vasto e di estrema attualità. Infatti fu il barocco a inventare la modernità come qualità prima ed essenziale di qualsiasi prodotto culturale; ed è precisamente questo il valore che viene contestato per primo da una cultura che si definisce post-moderna e vuole la crisi dell’intero sistema, anzi dell’idea stessa di sistema, della cultura umanistica.

 

Montini, Giovanni Battista: Lo incontrai la prima volta in Vaticano nel febbraio 1944, quando monsignor Montini faceva parte della Segreteria di Stato. Motivo dell’incontro fu il fatto che da un gruppo della Resistenza ero stato incaricato di informare il Vaticano circa una possibile azione dei tedeschi contro la radio vaticana: l’incarico mi era stato dato perché, avend’io ricoverato nella Pinacoteca vaticana le opere che i tedeschi volevano portare al nord, avevo libero accesso in Vaticano. Le circostanze fecero sì che il colloquio durasse più del previsto e, divagando, giungesse a toccare la situazione drammatica del momento. Fui colpito dall’acutezza dei giudizi dell’allora monsignor Montini.

 

Musei: Non debbono servire solo a ricoverare opere d’arte sfrattate o costrette a battere il marciapiede del mercato. Non avrebbero spazio bastante e non è questo il loro compito. Dovrebbero essere istituti scientifici o di ricerca, con una funzione didattica aggiunta; ed essere i piccoli e grandi nodi della rete disciplinare dell’archeologia e della storia dell’arte. Poche opere esposte permanentemente, anche nessuna; molto personale scientifico, ma studiosi aperti e non «conservatori»; molte mostre piccole e grandi, a rotazione, con il materiale dei musei integrato da prestiti. Nessuna dipendenza da ministeri e direzioni generali: gestione diretta da parte di uno scelto personale tecnico-scientifico (ma che tale sia davvero). Modello per l’uso di quella veramente Gesamtkunstwerk che è la città. In altre parole: il museo non dovrebbe essere il ritiro o il collocamento a riposo delle opere d’arte, ma il loro passaggio allo stato laicale, cioè allo stato di bene della comunità: il luogo in cui davanti alle opere non si prende una posizione di estasi ammirativa ma di critica o di attribuzione di valore.

 

Natale di Roma, 2731: Il Natale di Roma è l’argomento di un ciclo di affreschi dell’Arpino in Campidoglio, abbastanza belli, di un’ode barbara del Carducci, abbastanza brutta, e di innumerevoli sbrodolature rettoriche, insopportabili. La ricerca scientifica moderna ha provato che Roma non è nata come un’isola di civiltà in un pelago di tribù barbare... A onore e memoria di quella ricerca ho fatto modellare da Arnaldo Pomodoro (che ha voluto donarla), la medaglia che il Comune fa fare ogni anno per il cosiddetto Natale di Roma.

 

Oggi, arte d’: Mi sento impreparato ad affrontare il problema dell’arte di oggi, che non può impostarsi in termini di valore, giacché proprio i valori e l’idea del valore sono contestati: e manca una unità di misura che non abbia il privilegio del valore. Di qui la mia paura, la mia riluttanza a pronunciare giudizi. Temo che potrei solo dare quel giudizio - e lo so sbagliato - che diedi una volta, parlando con un giovane artista. A Parigi c’era una mostra di Jannis Kounellis: un insieme di sacchi pieni di sementi di colori diversi. A Kounellis ho detto: «Per me, questo tuo lavoro ha un limite: è così bello che pare un Morandi». Effettivamente, quei colori erano accordati in modo perfetto: senonché lo scopo non era più quello di accordare i colori in modo armonico.

 

Ojetti, Ugo: Ojetti, parlandone da vivo, era un individuo che mandava lettere su carta dell’Accademia d’Italia con la timbratura a secco fatta fare da lui stesso: «Il Duce ha sempre ragione», e scriveva sul Corriere della Sera che in fatto d’arte Pio XII e Hitler avevano le sue stesse idee.

 

Olivetti, Adriano: Ero rimasto legato, e in un certo senso lo sono ancora, all’immagine gobettiana di una borghesia che fa l’autocritica e ritrova la propria innocenza illuministica. Di qui, ad esempio, l’interesse che ho avuto per la pittura inglese. Di qui, il fascino del modello olivettiano del borghese che sente la responsabilità della propria cultura e agisce con grande chiarezza critica. Sono stato amico di Adriano Olivetti. Una sera lo incontrai in aereo tra Roma e Torino: avevo saputo della sua candidatura a deputato. Gli chiesi perché. E lui mi spiegò che un tecnico dev’essere anche un politico. Anche lui credeva al rapporto tra rigore professionale e politica.

 

Panofsky, Erwin: Quell’articolo di un giovane alle primissime arti [Andrea Palladio e la critica neoclassica del 1930] venne letto da Panofsky, allora professore ad Amburgo - incredibile, vedi com’era civile la gente, allora? Panofsky, venuto per i suoi lavori a Torino, suonò alla porta di casa mia. Mi trovai davanti un signore dall’accento straniero che mi chiese se l’autore del saggio fosse mio padre. Gli dissi che ero io. «Ah, bene, sono Erwin Panofsky». Rimasi di sale. Poi lo accompagnai in giro per Torino e diventammo molto amici. Indubbiamente, questo incontro con uno studioso che per me era un mito - ma che viene da Amburgo a Torino e va a conoscere un ragazzo alle prime armi - fu una lezione indimenticabile: la humanitas del grande studioso, per il quale tutti i cultori di una disciplina sono colleghi, stretti da un patto di amicizia come gli artigiani medievali. Ma è tutto cambiato: dov’era un’accademia platonica oggi è un nido di vipere.

 

Pio XII: Pio XII decise di fare un discorso all’apertura della mostra centenaria dell’Angelico, nel 1955 e poiché quella è gente seria si fa portare tutta la bibliografia sull’argomento per documentarsi, e capisce subito che interpretare l’Angelico laicamente come un politico-religioso era anche dal suo punto di vista più importante che rappresentano come un imbambolato in attesa di visioni celesti. Tutto il suo discorso all’apertura della mostra dell’Angelico in Vaticano è praticamente una recensione del mio libro.

 

Primo saggio: Una volta, durante un seminario, mentre si discuteva io avanzai l’idea che Palladio fosse in architettura il parallelo di Veronese. Venturi ci pensò su e poi disse: «Non l’ha mai detto nessuno. Adesso lei ci riflette sopra e mi fa un’esercitazione». Io ci riflettei, andai anche a Vicenza con un treno popolare dalla mattina alla sera della domenica, e alla fine presentai l’esercitazione a Venturi. Lui la prese e disse «Bene, la discuteremo venerdì prossimo». Arriva il venerdì, ma Venturi non mi chiede nulla e passa a un altro allievo. Io non avevo animo di ricordargli l’esercitazione, pensavo che non ne volesse parlare perché la giudicava talmente insufficiente da non meritare neppure di essere presa in considerazione. Alla fine mi feci coraggio e gli chiesi timidamente che cosa pensasse del mio lavoro. «E’ già in tipografia. La pubblico sull’Arte».

 

Problema: Per me un dipinto di Giotto non è un problema del Trecento; è un problema mio, di uomo di questo secolo; Michelangelo, Botticelli, Leonardo, Tiziano, chi vuoi, sono tutti problemi contemporanei, nostri. Ci emozioniamo davanti alle loro opere, ne siamo turbati, sono problemi attuali; quale fosse il problema loro, forse non sapremo mai. Vedi, ricordo una conversazione che ebbi con Gropius. Mi disse: «Io avrei voluto pensare tutte le cose che lei mi ha attribuito, ma non le ho mai pensate». Io ho risposto: «Caro Gropius, non me ne importa niente; mi importa che Lei le abbia fatte pensare a me». La nostra funzione è quella di capire che tipo di problema siano Leonardo, Michelangelo, Giotto, il Romanico, il Gotico, il Barocco, quello che vuoi, per la nostra cultura.

 

Razionalismo: Sì, d’accordo, la razionalità non è tutto, ma da razionalista sono vissuto e da razionalista voglio morire. Con quell’idea essendo vissuto, spero di arrivare alla fine dei miei giorni sempre fermamente persuaso che nulla al mondo è, in sé, razionale, ma nulla c’è di tanto irrazionale che il pensiero non possa razionalizzare.

 

Roma: Roma è in decadenza da sempre, o quasi: sono quasi duemila anni che vive nel ricordo e nel rimpianto del suo passato. Però, fino alla presa di possesso da parte della borghesia capitalista, Roma ha saputo decadere con dignità e perfino con stile. Non conosco una città che sappia peggiorare meglio di Roma. Immagini che cosa saranno Brasilia o Chandigar fra tre o quattrocento anni?

 

Romano d’elezione: Avendo vissuto per vent’anni a Torino e per cinquanta a Roma, sono per un quarto piemontese e per quasi tre quarti romano. Amo certamente più Roma che Torino, anche perché quasi tutti i miei affetti e le mie amicizie sono a Roma. Essendo romano il mio ambiente, mi considero romano anch’io: un romano che fino a vent’anni è stato torinese. Aggiungo che i miei studi gravitano in gran parte sul tema di arte-città: se c’è una città dove l’identità è evidente, è Roma. Sarei ingrato se non dicessi che Roma mi ha dato assai più illusioni (di illusioni si vive) che delusioni (di delusioni si muore).

 

Scienza/potere: Il giusto rapporto tra scienza e potere sarebbe che la scienza indica un’esigenza e il potere vi adempie perché è saggio agire secondo la scienza e perché, così facendo, si politicizza nel senso giusto il sapere scientifico.

 

Senza opera d’arte: Il critico ha veramente bisogno dell’opera d’arte per fare il suo lavoro di critico d’arte A un dato momento, non più... Il critico d’arte ha sempre davanti gli oggetti del suo studio, e avviene che, ad un certo punto, uno di questi oggetti sorprende la sua coscienza. Sorpreso nella coscienza, considera questo oggetto nel suo sorprendere la coscienza, anzi causa di una modificazione del suo stato di coscienza. A un certo punto, lo studio verte più che altro su come si è mossa o su come si muove la coscienza. Come procede la coscienza nel predisporsi a un impatto di ordine estetico? Si prepara a ricevere uno stimolo ad agire. Detto semplicemente, non è altro che il salto che osa lo storico politico allorché diventa politico militante, ed agendo sul presente e non più sulla memoria, si trova a fare la politica come storia contemporanea. Con ciò si vede anche che tutto può essere concesso allo storico fuorché di essere, politicamente, un equidistante, un obiettivo, un agnostico. Ma gli storici, peccato, non sono dei lettori di Baudelaire.

 

Servizio di leva: Fin dal viaggio di Telemaco alla ricerca di Ulisse nelle tante isole dell’Egeo, la città è stata considerata un poderoso e necessario fattore educativo. E un accumulo di cultura, ma anche mia straordinaria sorgente di esperienze umane... Sarei felice di veder sostituito il servizio di leva con un periodo di soggiorno nelle grandi città, obbligatorio per tutti, ragazze e ragazzi. Facciano quello che vogliono: vadano in biblioteca, nei musei, a visitare monumenti, a passeggiare tra la gente, a ballare, a fare all’amore, ma nel mare grande, nello spazio aperto della città.

 

Sessantotto, il: Solo un presuntuoso o un superficiale non sarebbe stato messo in crisi dal ’68; purtroppo molta gente non è stata messa in crisi ed è andata avanti come se niente fosse accaduto. L’indifferenza dello Stato di fronte alla rivolta studentesca è stata totale, catafratta: nemmeno si fosse proposto di provocare il peggio, com’è accaduto.

 

Sistema tecnico delle arti (fine): Allorché penso l’arte come componente di una civiltà che si è chiusa, mi riferisco al sistema tecnico delle arti in relazione con gli altri sistemi tecnici di produzione. La questione a cui una parte di noi storici dell’arte oggi lavora è quella di sapere se e in quale misura i sistemi tecnologici moderni, che sono i sistemi dell’informazione e della comunicazione, dato che siamo passati dalla tecnologia degli oggetti a quella dei Circuiti, avranno, o no, una componente estetica. Questo è quanto si cerca non solo di accertare, ma anche di fare in modo che avvenga, perché gente che sia stata privata degli impulsi creativi e la cui immaginazione sia immobile è gente alienata. Credo che sarai d’accordo, oggi è difficile pensare che un pittore con tavolozza e pennelli possa creare capolavori paragonabili a quelli di Tiziano o Cézanne. Come sistema di tecniche legate al lento e personale rapporto lavoro artigianale, l’arte ha certamente finito di esistere.

 

Siviero, Rodolfo: Un uomo verso il quale lo Stato italiano ha un grande debito che non ha mai pagato e finge tuttora di ignorare. E’ penoso dirlo, ma quello che ha recuperato l’ha recuperato malgrado l’ostruzionismo e talvolta l’aperto fastidio delle autorità italiane.

 

Storia della città: Le arti, per le culture fondate sull’economia dell’artigianato, sono costitutive della città: sono le tecniche alte, miranti al continuo superamento di sé e all’egemonia sulle concorrenti. Il solo luogo a cui tutte convergono e in cui fanno sintesi è la città. Per studiare l’arte bisogna partire dalla città invece che dall’arte, così come Goethe, per studiare i colori, è partito dall’occhio invece che dalla luce. Se l’arte è la città (l’inverso chiederebbe un discorso più lungo), lo storico dell’arte è lo storico della città.

 

Storia: La storia è critica e il potere non l’ama.

 

Storicismo: Arrivato ormai ai settant’anni, continuerò a battermi per quella linea storicistica, un po’ come quei vecchi gentiluomini che si battevano per l’onore della Regina, sapendo benissimo che era andata a letto col cocchiere.

 

Toesca, Pietro: Aveva visto tutto, sapeva tutto. Con me, quando giunsi da Torino nel ’31, fu generosissimo: benché non fossi allievo suo, ma di un collega diversamente orientato, mi volle vicino a sé, mi fece suo assistente.

 

Venturi, Adolfo: Era il padre di Lionello, ed ebbe per me quell’affetto pieno di tenerezza e privo di severità che hanno i nonni per i nipoti.

 

Venturi, Lionello: Il mio primo e grande maestro, un uomo che ammiro, a cui ho voluto bene, la cui memoria è un culto per me; ma anche un uomo la cui opera critica considero più importante di quanto da molti non si voglia ammettere; ed una figura umana moralmente esemplare.

 

 

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a cura di Bruno Contardi

Questo dizionarietto di citazioni è stato pubblicato per la prima volta in “Vernissage” [speciale in morte di Argan] inserto de «Il Giornale dell’arte», a. X, n. 106, dicembre 1992, (pagine non numerate). La maggior parte delle citazioni sono tratte dalle interviste ad Argan di Mino Monicelli (Roma, Editori Riuniti 1979), di Tommaso Trini (Roma-Bari, La/orzo 1980) e di Rossana Bossaglia (Nuoro, Ilisso 1992).

 

 
       
       
       
       
       
 

 

   
       
       

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